Uno studio clinico condotto presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs e pubblicato sulla rivista scientifica Nutriens, dimostra l’effetto terapeutico dello zafferano nel trattamento della sindrome di Stargardt.
La sindrome di Stargardt colpisce circa una persona su 8-10 mila individui e rappresenta la forma più comune di distrofia ereditaria della macula. Causata da mutazioni di uno specifico gene che provoca la disfunzione delle cellule retiniche, questa sindrome si manifesta inizialmente con una riduzione dell’acuità visiva. Nelle prime fasi si notano modificazioni (comparsa di macchie rotonde o pisciformi) a livello dell’epitelio pigmentato della retina mentre, negli ultimi stadi, alle lesioni maculari può essere associata la distrofia areolare centrale della coroide, con conseguente riduzione della visione centrare. Le persone affette da Stargardt fanno fatica a riconoscere i volti, leggere, guidare, e possono avere problemi a riconoscere i colori, oltre che una forte sensibilità alla luce, nota con il termine di fotofobia.
Lo studio clinico “Antioxidant Saffron and Central Retinal Function in ABCA4-Related Stargardt Macular Dystrophy”, coordinato da Benedetto Falsini dell’Istituto di Oftalmologia della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs di Roma e da Silvia Bisti, del Dipartimento di Scienze Cliniche Applicate e Biotecnologie dell’Università dell’Aquila, ha coinvolto 31 pazienti con Stargardt, cui sono stati somministrati quotidianamente 20 milligrammi di zafferano in compresse per sei mesi, alternati con sei mesi durante i quali veniva invece somministrata una sostanza placebo.
I risultati dello studio hanno testimoniato come la funzione visiva dei pazienti che hanno fatto uso di compresse allo zafferano si sia mantenuta stabile nel corso della somministrazione, mentre abbia subito una tendenza a deteriorarsi durante l’assunzione del placebo. Secondo il gruppo di ricercatori, questo risultato sarebbe un’ulteriore conferma degli effetti terapeutici dello zafferano, già testato in precedenza su animali affetti da degenerazione retinica, per i quali aveva avuto la funzione di rallentare il processo degenerativo della retina e preservare più a lungo la funzione visiva.
Lo studio originale