Edvard Munch, pittore norvegese, in gioventù aveva perso la vista di un occhio per un incidente. Visse a lungo quindi come monocolo.
Improvvisamente si trovò ad essere praticamente cieco per un problema retinico all’occhio veggente. Essendo pittore fu in grado con la sua arte di descrivere bene la insorgenza di uno “scotoma”.
Per scotoma si intende una macchia fissa nel campo visivo. Se è nera o rosso nerastra si dice scotoma positivo, se è invece un vuoto ovvero un “buco” nel campo visivo si dice scotoma negativo.
Un mattino del 1920 a 57 anni Munch si svegliò con una macchia nera nella parte inferiore del campo visivo: evidentemente una emorragia o una trombosi si era verificata nei quadranti superiori della sua retina (ciò che avviene in alto viene proiettato in basso e viceversa).
L’evento – che influì grandemente sui suoi problemi esistenziali – ci permette anche di seguire la evoluzione dello scotoma, il suo modificarsi e riassorbirsi nel tempo. Anche nel momento della massima estensione si può notare che la macchia nera gli appariva sormontata da una piccola testa giallastra, quasi come quella di un uccello dal lungo becco ricurvo.
Il pittore in una sua opera si ritrae mentre si “autocontrolla” lo scotoma che, nella fase più tragica della sua disavventura visiva, si era trasformato in un teschio ghignante. Il pittore dell’Urlo convisse a lungo con la paura della cecità e con il conseguente atteggiamento pessimistico della sua ispirazione.
Nei mesi lo scotoma cambiò forma, si ridusse e si spostò: probabilmente il sangue dalla retina si era portato sul vitreo, una sostanza gelatinosa semifluida che riempie il bulbo oculare. Il pittore convisse con il suo uccellaccio – in alto a destra si vede quel che è rimasto negli anni dello iniziale scotoma – e con i turbamenti che comportava il ricordo di quell’evento tragico.
di Giovanni Calabria